Monte Prena

Dall'ambiente primordiale del fiume sabbioso della Fornaca salendo per la via Brancadoro fino alla croce del Monte Prena


L’inverno del 2014 è stato contraddistinto da poca neve in basso e da copiose nevicate alle quote più alte; in questi primi giorni di Luglio i canaloni del Corno Grande ne sono ancora pieni, il Calderone sembra essere ritornato ai fasti antichi quando veniva annoverato ancora come il ghiacciaio più a Sud d’Europa. Sul lato Est del Prena alle quote più alte , quando percorri l’autostrada verso Roma, le chiazze bianche di neve sono ampie e ancora ben marcate; l’idea di salire su questa montagna dalla Brancadoro si scontrava col dubbio che in qualche stretto passaggio di questa via persistessero minuscole lingue ghiacciate capaci di metterti comunque in seria difficoltà. Ricordo la Brancadoro per esserci salito qualche anno fa con Luca, la ricordo con un paio di passaggi insidiosi, la letteratura parla di passaggi esposti di 3° grado, e con molti passaggi stretti o su placche lisce o su canali scivolosi; eventuale presenza di neve complicherebbe un po’ la vita. Contavo sulla differente esposizione del lato Ovest e sul riscaldamento delle rocce nelle ore assolate per scongiurare la presenza di ghiaccio alle quote alte, desideravo che Marina conoscesse questa affascinante via “quasi” alpinistica e mi sono facilmente convinto che si poteva fare. La piana di Campo Imperatore era in splendida forma, è sempre bello ritornarci dopo un lungo periodo di assenza, il cielo pallido lattiginoso tipico del periodo estivo era totalmente sgombro da nuvole mentre i versanti Ovest della lunga dorsale della catena del Gran Sasso, scuri e ancora in ombra, davano subito l’impressione che fossero liberi da neve, i presupposti erano dei migliori per vivere una giornata piena e di montagna vera . Percorriamo tutta la piana salendo da Fonte Cerreto fin quasi a fonte Vetica; scruto la rugosa parete del Prena frugando tra improbabili ricordi alla ricerca della via che avremmo percorso ma come sempre è inutile qualsiasi approccio fin tanto che non gli sei sotto. Un chilometro circa prima di Fonte Vetica abbandoniamo la lingua di asfalto e prendiamo a sinistra la brecciata che percorriamo fin tanto che profondi solchi impediscono di proseguire oltre. Humm… saremo almeno a tre chilometri dalla base del monte, non comincia bene, ma che gli fa? Siamo qui per vivere una giornata in montagna e la piana di Campo Imperatore, da queste parti, lo sappiamo, è sempre la prima e l’ultima parte di qualsiasi escursione si voglia fare. Per un tratto sulla strada, poi sulla prateria, percorriamo in meno di un’ora il tratto che ci separa dal grande fiume sabbioso, la Fornaca, che nasce proprio dalle falde del Prena e che come un vero fiume, formando anse, scorre e si disperde sulla piana. La Canala, ad Ovest e la Fornaca ad Est scorrono come veri fiumi intorno alle erbose Veticole; nascono dalla continua e persistente erosione della parete rugosa del Prena quando forti temporali o i continui disgeli portano a valle tonnellate di sabbia e ghiaia rubate alla montagna. Da soli questi “fiumi” di pietra valgono il prezzo dell’escursione; rappresentano un fenomeno abbastanza comune ma in questa piana assumono connotati di estrema durezza e riescono ad esprimere, più che altrove, la grande potenza della natura. Giunti alla Fornaca non la attraversiamo, ne seguiamo per un tratto il perimetro Est e ci arrampichiamo sulle rupi erbose che portano alla strada che conduce alla ex miniera sotto il monte Camicia. Percorriamo la strada per pochi metri e salendo sui prati alla nostra sinistra, intercettando il sentiero poco segnalato ma ben marcato tra i prati, ci ritroviamo con poche svolte alti sulla Fornaca stessa. Il paesaggio è superbo, rude eppure affascinante; i contorni erbosi delle rotonde e prospicenti Veticole contrastano con il fiume sabbioso e arido che scorre sotto di noi e soprattutto con le pareti del Prena che iniziano ad incombere e a far sentire la presenza. Il sentiero scorre a mezza costa, a tratti sul filo del precipizio verso valle, contornato da notevoli fioriture a tratti da profumi di campo, inebrianti. La parte alta della valle, le pareti del Prena e della cresta del Vado di Ferruccio che incombono aride e ruvide, sono contraddistinte da notevoli fenomeni erosivi; al termine di una pietraia con grossi massi erranti, senza affluenti apparenti e quindi frutto di infiltrazioni, una pozza d’acqua di un paio di metri di diametro si fa notare per la sua limpidezza e trasparenza; l’acqua è fresca, non fredda, è un piacevole ristoro in un tratto della valle dove non arrivando i venti e col sole a picco l’afa inizia a farsi sentire. Praticamente in testa alla valle, attraversiamo la Fornaca, in questo punto ormai ridotta a pochi metri di larghezza ed iniziamo la salita verso la sella tra le Veticole ed il Prena. Il sentiero è evidente ma non segnalato da bolli o bandierine; intorno, sui prati è un trionfo di fioriture e profumi. Saliamo per svolte sempre più strette come stretta si fa la valle fino alla sella da dove il panorama si fa letteralmente superbo. Non sai dove guardare, il tutto è di una unicità fantastica, i fiumi sabbiosi della Canala e della Fornaca scendono accerchiando le erbose Veticole mentre si è letteralmente sovrastati da un ammasso di rocce e pinnacoli . La scomposta piramide del Prena è verticale sopra di noi, solo la prima parte riesci a vedere, il resto si perde lassù in alto oltre le guglie disseminate ovunque. Giusto il tempo di godersi quest’angolo di natura “primordiale”, la smania di Marina di attaccare la mitica Brancadoro, insieme all’incognita di quello che sarà, gli mettono il pepe addosso. Una foto ad immortalarsi sotto la targa di inizio della via e si parte. La prima parte è sentierata, scompostamente e soprattutto completamente sdrucciolevole disseminata come è di sabbia e ghiaia, un po’ come lo sono le vie di scolo a valle. Bolli giallo rossi guidano la salita ma ad onor del vero occorre segnalarne la vetustà e la quasi trasparenza in molti casi. I bolli che volgono a valle sono scoloriti e parzialmente ormai cancellati, quelli che volgono verso la montagna sono in uno stato migliore, segno che sono più protetti dagli agenti atmosferici e dal vento; una “rinfrescata”, soprattutto nella parte alta più alpinistica, la meriterebbero davvero. Salendo la vista abbraccia entrambi i fiumi sabbiosi, via via che si sale Le Veticole prendono sembianza di collinette accerchiate da lingue serpeggianti di ghiaia e sabbia. Oltre, la piana di Campo Imperatore e la lunga interessante cresta del Monte Bolza. Non mi stancherò mai di ripetermi, è un paesaggio duro, unico e di estrema bellezza. Superati i primi centocinquanta metri circa di salita abbordabile e adatta a tutti iniziano le prime difficoltà “alpinistiche” o comunque le prime difficoltà in cui occorre avere un minimo di esperienza e confidenza con la roccia e con l’esposizione. La prima difficoltà che si incontra, dopo aver superato una serie di sentieri scoscesi e su larghe cengie o di pietraie appoggiate è un muretto di un paio di metri, facile da superare per chi è avvezzo, meno per chi è alle prime armi. La solita questione da risolvere di trovare un punto di spinta per i piedi e dei buoni ancoraggi per le mani e si supera; all’ultimo della comitiva, come sempre, l’impegno di non ricevere “spinte” dal basso. Immediatamente dopo, un camino alto una quindicina di metri, molto appoggiato, ed in alcuni tratti così stretto da non permettere una posizione fronte alla salita fa divertire nel primo tratto (salendo in contrapposizione) meno nel secondo, dove le pareti si allargano e gli appigli si fanno sfuggenti. Un po’ di ricerca di appoggi ed appigli ad ogni progressione, qualche buona spinta sulla parete opposta e si è sopra; certo delle leve lunghe facilitano non poco la salita, per chi non le ha, una solida corda che cala dall’alto potrebbe tornare comoda. Dopo il camino, divertente e di soddisfazione, per lunghi tratti si percorre un misto di sentieri calpestabili , di placche inclinate che si fanno comodamente (solo in qualche caso serve togliersi lo zaino per mancanza di spazio) o di canali polverosi ma facili da disarrampicare; insomma un misto di sentieri e primi e secondi gradi (così li definiscono gli alpinisti veri) che si superano divertendosi; su tutto, mano a mano che si sale l’emozione di trovarsi in mezzo ad un mare di roccia, di guglie e pinnacoli, di pareti spioventi e poco più in là, ma sempre in estrema sicurezza, di esposizioni mozzafiato. E’ il tratto centrale quello più complicato, quello dove si trovano i due passaggi chiave dell’intera salita, quelli definiti dalla letteratura di terzo grado, fosse solo per la consistente esposizione incombente. Per il primo si tratta si salire una rotonda sporgenza, oppressa da una parete che schiaccia verso il basso e che non permette di sollevarsi più di tanto, gli appigli sono pochi e soprattutto un metro e mezzo a destra il vuoto fa sentire la sua presenza e blocca non poco i movimenti. Per fortuna quando siamo passati noi abbiamo trovato una corda già sul posto; per prudenza non mi ci sono affidato completamente ma è servita se non altro dal punto di vista psicologico. Trovato un minimo spuntone per sollevarmi ho strisciato fino a trovare un appiglio per una mano. Lenti movimenti a scivolare fino a bilanciarmi sull’orlo superiore del roccione ed ero oltre. La corda a lato dava sicurezza ma non potendo osservare dove era agganciata non l’ho mai usata con decisione. Per la cronaca era agganciata ad un chiodo tramite una fettuccia, era sicura ma si potrà dire altrettanto da qui a poco? Mi sono chiesto se sia corretto lasciare spezzoni di corda sui tratti difficili, dove la tentazione di affidarci la propria incolumità in certi momenti diventa forte. Mi verrebbe da dire di no, credo sia meglio lasciare la possibilità di riuscita alle proprie capacità. Comunque una volta oltre calo la mia di corda e dopo averla assicurata la tendo a Marina che con questa si sente più sicura e convincendosi che il vuoto, una manciata di centimetri più in là non esiste, supera di slancio il passaggio. Il secondo passaggio chiave si trova subito dopo l’incrocio con la via dei Laghetti, dopo aver salito e sceso un paio di canalini ripidi e polverosi dove l’unico rischio era scivolare per fermarsi poi sullo sperone successivo, ci si trova sulla sella di arrivo della Laghetti, che per la cronaca abbiamo ancora trovato, in questo tratto e fin tanto era visibile, colma di neve. Dalla sella un tratto appoggiato di una ventina di metri, forse qualcuno meno, facile da salire per la presenza di tante maniglie naturali, termina con un muro di poco più di 2 metri, verticale, quasi privo di appigli e sovrastato da uno sperone in contropendenza. Il muro, al termine del tratto appoggiato è lungo un paio di metri, poco più, oltre un vuoto davvero pronunciato dove è proibito finire. Un primo momento di studio mi ha fatto perdere tempo; ho risteso la corda per far salire Marina fin lì dove c’era comunque spazio per sostare. La parte iniziale del tratto inclinato non presentava appigli su cui darsi slancio, l’erosione delle rocce formavano una pancia negativa che impediva di usare i piedi se non si era dotati di una lunga leva. Una volta salita Marina fin dove ero io è iniziato l’approccio per superare il muro. Il cervello rifiutava di accorgersi del vuoto a lato, una perlustrazione per trovare appigli è durata quel tanto che basta per convincersi che gli unici in grado di darti slancio e possibilità di andare oltre si trovavano proprio verso l’estremità del muro, proprio verso quel vuoto che il cervello si rifiutava di volere prendere in considerazione. Insomma la faccio breve, gli alpinisti veri passerebbero questo punto di slancio, e a dire il vero non mi ricordavo questa difficoltà la volta precedente quando salii con Luca e quella ancora prima quando salii per la Laghetti. Che l’età stia già lasciando i suoi segni e faccia diventare quella spavalderia cosciente di un tempo una sorta di opprimente e timorosa saggezza? Forse, mi sa di si. Comunque dicevo di farla breve, mi sposto un passo verso destra, verso il vuoto, non mi va molto ma se si vuole andare fino alla croce del Prena non rimane da fare altro; uno sperone quaranta centimetri più alto del pianetto dove ci troviamo, dove è possibile appoggiare la punta dello scarpone destro, un minimo di appiglio per le mani ed un buono slancio facendo finta di trovarsi sul recinto di casa e non con quaranta metri di vuoto accanto e la parte più complicata è cosa fatta. Oltre il ciglio tondeggiante del muro c’è generosità di maniglie, il cuore si solleva e i movimenti diventano sequenziali. Sono oltre, ben piantato a terra. Mi accorgo della presenza di un anello di corde ben fissato sotto lo sperone, ci assicuro la mia corda e passandomela sotto una gamba la allontano dal tratto più ripido e la butto oltre per dare maggiore sicurezza a Marina che dovrà ripetere il passaggio che avevo da poco concluso. La corda si tende, faccio da contrappeso, l’aiuto abbrancando l’avanbraccio e Marina è a cavalcioni del muro. L’adrenalina è forte, il tempo di sgorgare tutta e si prende coscienza che ciò che rimane non rappresenta più nessun tipo di difficoltà alpinistica, solo un lungo e fastidioso traverso su placche e detriti fino alla vetta. Lo so che la Brancadoro è una via facile, è la seconda volta che la percorro, è la terza volta che passo da questo passaggio considerando la volta della Laghetti ma mi sento felice e soddisfatto. Abbiamo fatto tutto da soli, aiutandoci a vicenda senza mai scoraggiarsi. Non abbiamo corso pericoli ma non è stata nemmeno così facile. Un consiglio ai tanti “pieni” di alpinismo che sminuiscono questa via e soprattutto a chi intende intraprenderla per la prima volta. Non occorre essere alpinisti per fare la Brancadoro, ma avere dimestichezza e familiarità con esposizioni si, ed in certi tratti anche molta. Non va sottovalutata e soprattutto non va affrontata solo per avventura. Chi dice il contrario sa di far correre pericoli a chi è poco esperto. Comunque, stancamente arriviamo in vetta; finalmente la croce e finalmente dopo tanti anni di attesa per Marina è il Prena. Il vento si è placato, rimaniamo in vetta per quasi un’ora, il panorama che si gode da lassù è dei più belli e suggestivi; fino al Brancastello troneggiano nuvole tanto da nascondere il Corno Grande. Le guglie delle Torri di Casanova e dell’Infornace sono invece libere e fanno sognare. Magnifico quel tratto di centenario. Ci riposiamo e ci riprendiamo dagli sforzi della salita, ci godiamo la grandiosità degli orizzonti; magnifico momento. La discesa è per la via normale, un tratto di cresta verso sud e ci si infila verso i piani di Alburna che sono ancora parzialmente innevati; come sempre fastidioso è il primo tratto tra rocce e sfascumi. La presenza di neve peggiora la situazione. Anche cupe nubi risalgono da est e lentamente ma inesorabilmente ci finiamo in mezzo. Dopo la salita per la Brancadoro questo tratto ci sembra terribilmente noioso, anche la vista di ciò che ci circonda ci è negata. Il sentiero è chiaro, segnato da bolli fino ai piani e poi da bandiere quando diventa marcatamente escursionistico, lo conosco per averlo percorso un sacco di volte, nessun indugio fino alla cresta del vado di Ferruccio dove finalmente ritorniamo fuori dalle nuvole. Al vado, che sempre inganna, sembra tanto vicino e non si raggiunge mai, prendiamo il sentiero che attraversa sotto il Camicia. Ancora fioriture e la cascata che deriva dal nevaio ancora presente in quota ricca come mai l’ho vista. Intercettiamo sul sentiero il corso d’acqua che ne deriva, rumoroso tra le pietre, un paio di salti a formare belle cascatelle e si getta nella valle verso la Fornaca; si infiltrerà nel terreno, a valle non ce ne è traccia. Tra saliscendi e scontornando il Camicia lentamente scendiamo, siamo più alti del sentiero percorso la mattina, il cielo grigio di nuvole appiattisce le distanze ma non impedisce di godersi per intero la Fornaca e la salita alla sella delle Veticole. Davvero un ambiente unico e selvaggio, davvero una gran bella escursione. Quando arriviamo in fondo al sentiero iniziamo a seguire la strada che attraversa il piano stepposo, ci impieghiamo poco più di un’ora per raggiungere l’auto; ormai le luci sono quelle del crepuscolo, le moli del Camicia e del Prena perdono la loro forza; Campo Imperatore diventa quel luogo dove il tempo, un giorno, sarà destino che si fermi.