L'abbiamo chiamato "Innominato", il nostro monte dei desideri nascosti e proibiti


C’era una volta l'Innominato, un monte che incuteva rispetto e paura...pochi e vaghi racconti narravano di appassionati viandanti che riuscirono a conquistarlo, a calpestare la sua vetta; un fitto alone di mistero avvolgeva probabili sentieri possibili per raggiungerlo e lasciava trapelare di crudeli avversari che nè ostacolavano il percorso, di incorruttibili protettori della sua sacralità che in più di un’occasione ne sbarravano il cammino e ne tutelavano l’inviolabilità. Si parlava di diversi avventurieri che sconfitti furono costretti a tornare sui loro passi...alcuni furono ricacciati dai suoi aspri pendii ghiacciati; altri da abbondanti nevicate che rendevano impossibile raggiungerne la cresta; c’è chi fu spaventato dai numerosi camosci che incuranti della presenza di estranei non lasciavano procedere d’un “Passo” quel valico “Cavuto”; altri furono impauriti dall’attacco del sentiero da cervi enormi, più grandi dei cavalli, che ne controllavano l’accesso già dentro un piccolo paesino sul lago che dal basso veglia su una sua “Valle” ricca di “Rose”; gli ultimi incontravano nei fieri gendarmi che tutelavano il rifugio, ultimo avamposto prima dell’attacco in cresta, la sconfitta e, nella migliore delle occasioni, il mesto ritorno sui propri passi. Si sa, ogni sfida ha da sempre attratto l’uomo impavido e coraggioso che non sa accettare sconfitte e che mosso dalla curiosità che ne distingue la sua razza, può temporeggiare, studiare, capire, riflettere e affinare il piano che può condurre alla conquista di qualcosa a lui fin’ora sconosciuto. Così, com’è noto, l’unione fa la forza e cinque prodi guerrieri dopo mesi di assoluto silenzio e lunga meditazione, durante la quale misero a punto il modo migliore per sferrare il loro attacco decisivo, si trovarono pronti ad affrontare il gigante Innominato. Il duca EMME, Sir. GIOR, il capo AUG, il barone de GIAC ed il conte ELLE...questi gli arditi uomini d’arme che erano pronti a rischiare tutto pur di sconfiggere quel gigante che spradoneggiava sulla rigogliosa “Valle” sottostante tinta in quel tempo di un verde smeraldo luminoso ed intenso, a cirocondarne il “Canneto”. Il momento era quello prorpizio: nè il freddo rigido dell’inverno nè il caldo torrido dell’estate avrebbero ostacolato il loro viaggio; maggio era il mese ideale. Il percorso apparentemente molto, molto lungo..si stimavano circa ventidue chilometri e oltre millecinquecento metri di dislivello, partendo da un “Prato” lì in “Mezzo” alle Mainarde vicino ad un “Baraccone”. Questo Innominato, come quello manzoniano, era in preda ad una profonda crisi spirituale scorgendo da lontano quel piccolo drappello di compagni che non si sarebbero fermati davanti a nulla in quella splendida e assolata mattina primaverile. Partirono al primo albeggiare, verso le 06:50, dal “Baraccone”, accanto al quale lasciarono diligenze e destrieri, puntando diretti la “Torretta”, un “Paradiso” montano, avamposto di un ampio anfiteatro “Meta” iniziale del loro tragitto. Appena raggiunto tale slargo tra le creste rocciose, il sole ormai ruggente e brillante costrinse quei cinque ragazzacci a togliersi il primo strato di armatura rimanendo ad affrontare i pericoli con imprudenti magliette a maniche corte: nulla poteva intimorirli. Pochi sorsi d’acqua e il loro cammino riprense senza difficoltà; camosci curiosi seguivano i loro passi da diverse alture..volevano ammonirli? o li ammiravano? I cinque non si posero troppi quesiti, e proseguirono fin dove l’Innominato sotto una elegante cresta aveva rinchiuso i Titani, mostruosa stirpe di esseri sovraumani, i legendari padri degli dei: quel posto era il lugubre “Tartaro”. Qui bivaccarono; erano passate solo tre ore dalla loro partenza, ma un passo deciso e costante li aveva portati a contare quasi nove chilometri di cammino e più di mille metri di dislivello fatti. Rifocillati, e passato senza paure nè incertezze quel crinale, puntarono diretti l’avamposto che li avrebbe condotti ad affrontare il loro più temibile avversario. Giunsero brevemente e senza difficoltà alcuna su di un primo monte che affacciava sul temibile Innominato a mo di “Altare” quasi a celebrare la sua imponenza. La sosta sulla cima di quella vecchia ara fu rapida. Il loro obiettivo non era mai stato così vicino. Durante il procedere del lungo cammino che li aveva portati fin là, i prodi amici avevano parlato delle varie angolazioni da cui lo avevano studiato durante molte altre epiche avventure: da una “Bellaveduta” lo avevano ammirato in diverse stagioni, così come da una “Rocca Altiera” che lo fronteggia al di là della Valle verdeggiante poco prima citata; c’è chi di loro era rimasto impressionato dalla sua superbia quattro anni prima osservandolo da un “Calanga” e gliele aveva promesse da un “Forcone”, chi da una rocca “Chiarano” o da un più apparentemente importante “Greco”; altri lo avevano conosciuto più da vicino, ma riportando sconfitte su sconfitte. Quel giorno non sarebbe stato così...lo sentivano...ce l’avrebbero fatta. Da quella lunga cresta la vista spaziava dalla sua anticima Sud, fino alla sua vetta, slanciata verso il blu. I prodi avventurieri smisero di parlare; erano molto concentrati su quello che secondo le leggende e dicerie montane era il tratto più complicato del loro viaggio: l’attacco alla sua prima anticima era descritto come molto difficoltoso per via di passaggini, fino al terzo grado, mani e piedi su roccette con una bella esposizione. Avanzando, notarono che le ciarle erano vere; niente di infattibile, ma l’attenzione era massima...pochi minuti...quell’ometto di vetta con la scritta 2.170 metri fu presto raggiunto. La discesa continuando la cresta intrapresa, fu proseguita con una concentrazione ancora maggiore: i passaggi divennero ancora più delicati e l’esposizione più rilevante. Nessun sussurro tra gli amici che tesissimi puntarono e raggiungensero con un sospiro di sollievo la selletta successiva l’anticima meridionale. La disperazione dell'Innominato giunse ad un punto critico: non c’era più alcun impedimento che avrebbe bloccato gli impavidi cavalieri. Come successe per un altro Innominato, questa volta non furono le parole di Lucia Mondella a farlo desistere dal tracollo salvandolo dopo avergli mostrato la via della misericordia e del perdono, ma una sorta di rassegnazione dovuta alla consapevolezza che la sua resa non avrebbe sancito la sua sconfitta. Quei cinque non volevano umiliarlo; nessuna intenzione veramente belicosa aveva mosso i loro passi, ma solo la voglia di calpestare con rispetto la sua vetta, i suoi “Petrosi” come gli indigeni del posto defeniscono le sue pietre aguzze. Ce l’avevano fatta...nessun vincitore, nessuno sconfitto....c’era in quell’arrivo in vetta un comune compiacimento, un gran senso di appagamento. Gli amici, pienamente soddisfatti, non smettevano di lanciare il loro sguardo tutt’intorno: le numerose vette del P.N.A.L.M. limitavano l’orizzonte da ogni dove, importanti, stagliate verso l’alto, ben definite e finalmente osservate da una cima mai così desiderata; sembravano sorridere quei monti agli amici che erano riusciti insomma a sfatare quel mito. L’Innominato aveva conosciuto e capito solo ora le vere intenzioni dei cinque ragazzacci del Gruppo Escursionistico Aria Sottile; ora rabbonito, gli concesse anche una rapida visita alla sua anticima Nord, toccata alle 12:00 in punto dopo cinque lunghe ore di cammino ininterrotto, e poi li coprì da eventuali pericoli mostrandogli e cedendogli il fianco a mezza costa seguendo il quale senza alcuna difficoltà si ritrovarono nuovamente sotto l’inferno dei Titani, sulla cresta “Tartaro” e da lì direttamente al Baraccone, dove le loro diligenze li stavano aspettando. Una leggenda che si confonde con la realtà; nessuno saprà mai come andò veramente, se quegli amici compirono tale impresa o se è solo un altro di quei racconti da narrare in una sera d’inverno accanto al fuoco..."sta di fatto che non sei fregato veramente, finché hai una buona storia e qualcuno a cui raccontarla"! Il guaio è che nessuno crederebbe a una sola parola della mia storia!